In memoria di Antonio Russo nel ventennale della sua morte, Roma 16 ottobre 2020

Nel ventennale della sua morte ricordiamo Antonio Russo, militante federalista europeo, inviato per Radio Radicale, reporter nei teatri di guerra degli anni ’90, trovato morto assassinato il 16 ottobre 2000 in Georgia dove si trovava per raccontare gli orrori e i crimini nascosti all’opinione pubblica mondiale della guerra in Cecenia.

Il Presidente MFE Roma, Ugo Ferruta, amico personale e compagno di lotta lo ha ricordato come “uomo libero e libero intelletto, di grande spessore e cultura”. Di seguito trovate un articolo di Ugo scritto in sua memoria in occasione della sua scomparsa:

IL LUPO ABRUZZESE
ricordo di Antonio Russo*
“Lama di fuoco che taglia il giorno dalla notte mentre una notte rincorre in un carosello di colori un giorno fugace che pigramente si prepara al suo eterno rito. Dai cento occhi dell’aereo la meraviglia di un paradosso si mostra in tutto il suo splendore con l’illusione del partecipare col carro di Fetonte al gioioso rincorrersi di Aurora con Notte. Meraviglia delle estreme lande siberiane, dove il tempo della luce con il buio sembra essere il soffio dell’istante”.
Le aveva scritte nel mio studio all’Università di Bielefeld queste righe, all’indomani di una nottata in pieno stile Antonio Russo e di un paio d’ore di sonno, tante gli bastavano. Tra un congresso e l’altro in angoli diversi dell’Europa, una cornice di tranquillità e il tempo di fermarsi un momento e raccontare ciò su cui aveva indagato e riflettuto.
Si trattava di uno dei suoi primi viaggi-inchiesta, dopo quello a Sarajevo di qualche mese prima di cui però non è restata alcuna traccia scritta, effettuato in occasione di una settimana di incontri sui problemi della Russia e sulle possibilità di un governo mondiale. Una settimana in cui, per raccontarlo ancora con le sue parole, “uno spicchio di mondo era volato in una città universitaria a un’ora e mezzo da Novosibirsk, all’estremo confine del prossimo, per trovarsi nel risiko delle diversità”.
Con quel reportage scritto per la rivista Comuni d’Europa Antonio aveva dunque riaperto la sua carriera nella galassia dell’informazione nella nuova veste di “inviato”, participio passato che, reso necessario dalla mancanza della tessera di giornalista che l’ignavia dei suoi primi datori di lavoro gli aveva precluso, si adattava comunque benissimo alla sua figura.
Era stato il contatto con le organizzazioni europeiste e federaliste europee, tra il ’93 e il ’94, a dargli l’occasione di partecipare ad una serie di incontri che avvenivano un po’ in tutta Europa. Quelle organizzazioni, spesso pioniere nella scoperta di idee e di uomini di cui non sempre apprezzano fino in fondo il valore, gli avevano fornito i pochi mezzi necessari a realizzare i progetti che inevitabilmente avevano preso corpo nella sua testa. La prima missione a Sarajevo ed il soggiorno a Novosibirsk furono i più significativi, i primi contatti diretti con i due mondi, l’ex Jugoslavia e l’ex-Unione Sovietica, che da quel momento avrebbero marcato la sua vita. In entrambi i luoghi egli allacciò una serie di rapporti umani e professionali (non era mai facile in Antonio, vista la passione che lo animava, scindere le due dimensioni). In entrambi i luoghi sarebbe più volte tornato e ne avrebbe fatto la base per ulteriori viaggi alla scoperta di realtà difficili e luoghi d’incontro di culture diverse.
In quella stagione egli trovò anche gli amici con i quali intraprendere un nuovo percorso intellettuale. Amici che lo sostennero, pubblicarono con lui pamphlet e monografie, lo incoraggiarono a rilanciare la rivista di filosofia che aveva fondato anni prima incoraggiato dalla profezia (“sono gli irregolari che fanno le grandi cose”) del fondatore di uno dei maggiori istituti italiani; altri, molti a dire il vero, si appoggiarono a lui; altri ancora, più giovani ma forse più borghesi nell’animo, cercarono di seguirlo nei limiti del possibile. La sua sensibilità fece il resto, e il suo passato di militante radicale gli permise di riaprire il rapporto con la radio per la quale avrebbe poi effettuato le sue corrispondenze più significative e più conosciute.
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Editore in proprio, in gran parte autodidatta, passato dagli studi di veterinaria a quelli di filosofia, uomo dalle mille letture, militante politico, compagno di mille viaggi e di mille congressi, Antonio non è stato solo un giornalista. È stato intuizione ed approfondimento, cultura e senso pratico, ingenuità e scaltrezza, formidabili antenne grazie alle quali era passato attraverso esperienze difficilissime, è riuscito a librarsi come pochi tra dimensioni diverse dell’universo sociale, grazie alla grande carica umana che era capace di trasmettere.
Moderno Socrate, Antonio non ha mai avuto grande facilità o grande motivazione per scrivere, quasi doveva obbligarsi a farlo. La velocità e l’acutezza delle sue intuizioni, il bisogno di non fermarsi mai, lo portavano subito sul campo, dove il racconto e la comunicazione orale prendevano immediatamente il sopravvento. Però ovunque andasse, con chiunque avesse a che fare, nonostante una congenita mancanza di diplomazia, accorciava con grande facilità la distanza e sapeva farsi raccontare da ciascuno un po’ della sua anima e dell’anima del luogo. Poi c’era l’ironia dissacrante, i quadretti e le gags che cuciva anche attorno agli amici come ai grandi nomi, compresi quelli che incontrava in occasione di premi e riconoscimenti.
Non c’era insomma da meravigliarsi se quando arrivavi in un posto ventiquattr’ore dopo di lui lo conoscevano già tutti, e se attorno alla sua figura nascevano leggende metropolitane come quella dell’intervista esclusiva al Generale Lebed ottenuta presentandosi con una cassa di vodka. Parrebbe ancora di vederlo in costume da bagno davanti a Miramare a fermare le macchine dei turisti increduli “un attimo di pazienza, che deve passare il sindaco di Sarajevo” (che infatti si materializzò di lì a poco su un’utilitaria scassata), o nelle fughe in pigiama dall’ospedale in compagnia di un altro paziente per andare a cena in una delle trattorie più vicine, dove ogni tanto incontravano anche i medici ormai rassegnati a non poter arrestare la loro voglia di vivere ad ogni costo.
Nell’affrontare i passaggi più impervi era un lupo solitario, come egli amava descriversi accennando alla regione dove era nato e divertendosi a pensare che altri fossero come lui, ma era anche un elemento trainante di quelli che costruivano la fortuna del branco, e soprattutto un uomo con un forte senso dell’amicizia, un’amicizia che spesso nasceva attorno ad un confronto di idee e si cementava con la voglia di difenderle insieme.
Antonio era viscerale nei dibattiti e nelle polemiche, pronto a smentire con i fatti dogmi e convinzioni di giovani idealisti dal grande futuro ma già un po’ primi della classe che non a caso si sentivano “rovesciata in faccia la verità”. Ma anche sempre pronto a condividere la tavola, le mezze giornate di vacanza rubate tra una missione e l’altra, le discussioni di cucina e le conversazioni letterarie, per tutto ciò amato e sempre ricercato da quelli che apprezzavano la sua grande comunicativa e capacità di ravvivare un ambiente e la sua voce dal timbro che trasmetteva buonumore.
Sarebbe un’impressione sbagliate, leggendo queste righe, quella di credere che Antonio fosse una specie di guru. Non si conoscerebbe la sua modestia, il suo rispetto per il prossimo e la sua disponibilità nei confronti degli altri, che spesso, più concreti e perbene, erano poi loro a capitalizzare. Certo c’è sempre stato l’affetto e con riconoscenza di tutti quelli – è stato sempre sorprendente vedere quanti fossero – che ha sempre sostenuto e aiutato. E poi c’erano quelli che avevano trovato rifugio a casa sua in caso di bisogno, vero o presunto. Arrivavano allora, spesso sotto la pressione dell’incertezza e delle necessità concrete, le lamentele e le scene per essere stato sfruttato e dimenticato, affogate negli eccessi delle sue notti solitarie, eccessivo com’era nei bassi quanto grandioso e magnetico era negli alti. Ma generoso in ogni caso e per principio.
Una delle ultime volte che l’ho visto, poco dopo il suo ritorno da Pristina, ho avuto la netta impressione che in lui ci fosse come una serenità ritrovata. Era contento di poter camminare a testa alta, delle soddisfazioni che sentiva di avere dato agli affetti più cari, sembrava che sentisse che di avere intrapreso una strada e ottenuto dei risultati che davano un senso alla sua vocazione. Non può sfuggirmi allora nel suo racconto da Novosibirsk l’accenno ai versi di Whitman, poeta dell’infinito americano, lo stesso che incita a guardarsi indietro per capire se si è veramente vissuti. E di fronte a tutti quelli che prima e dopo l’accaduto si sono domandati se valeva la pena di fare una vita così dura e rischiosa, non posso impedirmi di pensare due cose: che Antonio, eroe dall’animo antico in un’epoca postmoderna, al contrario di molti ha vissuto veramente; e che aveva ancora molte cose da dire e un mare di autenticità da rovesciarci in faccia.
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C’è da restare folgorati rileggendo oggi quella corrispondenza da Novosibirsk, della sua impressione che sembrava esserci una specie di reticenza di fronte alle domande che faceva e soprattutto di fronte a questo passo: “Lo stesso valga per la situazione cecena, dove spesso le domande che cercavo di fare venivano liquidate con frettolosi giudizi, quali il fatto che i ceceni sono un popolo di guerriglieri dediti al commercio delle armi, al contrabbando, poco inclini a seguire le direttive del governo. Il fatto che in Cecenia si trovi il più alto concentramento di armamenti russi e una presenza nel territorio di organizzazioni di tipo mafioso hanno motivato l’intervento di Eltsin”.
A lui quelle spiegazioni non quadravano: “Posizione alquanto ambigua, visto che fra i più interessati al traffico clandestino delle armi – visti gli ingenti guadagni che ne provenivano – era proprio il governo russo poiché il territorio ceceno strategicamente era una delle migliori vie per il trasporto delle armi. Sembrerebbe che Eltsin abbia perso il controllo della situazione in quanto si erano create delle aree di complicità con organizzazioni mafiose di cui se ne avevano appendici, sempre più potenti, anche a Mosca”.
Convinto che “parte di verità e parte di menzogna hanno da sempre costituito l’anima della politica”, Antonio ha voluto ancora una volta, come nel caso della ex-Jugoslavia, immergersi nel centro della geopolitica, nel labirinto delle umane contraddizioni, e verificare se le generiche ipotesi di Novosibirsk avessero un riscontro fattuale. Questa per chi lo conosceva è semplicemente la conferma che anche il progetto dell’ultima indagine era prima di tutto suo e che veniva da lontano. Gli ci erano voluti anni per realizzarlo, da vero uomo libero e da autentico free lance dell’informazione e della politica, cercando e trovando, con fatica e a caro prezzo, non padroni e committenti, ma sinergie e compagni di un pezzo di strada.
* Scritto poco dopo la sua scomparsa.