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COMUNICATO STAMPA:

 

IL MFE CONDANNA LA MANIFESTAZIONE NEOFASCISTA DI ROMA “EURORIBELLIONE”

 

 

Il Movimento Federalista Europeo (MFE) si ispira agli alti ideali antifascisti del Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi durante il loro confino nell’isola durante il regime. Come si legge nel Manifesto: “Quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione d’insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici ed americani possono svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

L’Europa libera e unita per cui il MFE si batte dagli anni della Resistenza, riconoscendosi nei valori della costituzione repubblicana, deve essere dunque federale, democratica e pacifica, secondo quanto recita la “Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea”: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.

Ecco perchè in accordo con l’ANPI e con tutte le altre forze politiche che si ispirano ai medesimi valori, la Sezione “Altiero Spinelli” di Roma e il Centro regionale MFE del Lazio considerano gravemente offensiva e pericolosa la manifestazione “Euroribellione”, che ha dato appuntamento nella capitale, il prossimo sabato 10 novembre, a movimenti xenofobi e populistici di tutta Europa, la cui matrice ideologica è di chiara ispirazione neofascista.

Affermare come fa il Movimento sociale per l’Europa, promotore della manifestazione, che “Roma capitale politica [sic!], Parigi capitale culturale e Berlino capitale economica, contro ogni bieco nazionalismo, devono guardare a Mosca, terza Roma, per portare pace e prosperità nel mondo” significa riciclare il penoso velleitarismo che ha portato il nostro Paese alla sconfitta e all’umiliazione della guerra mondiale. Indicare la Russia di Putin come proprio riferimento ideale e politico per salvare la libertà dell’Europa tradisce la profonda ambiguità dell’iniziativa. Accreditare il proprio movimento con immagini di violenza di piazza e di scontri con le forze dell’ordine ne qualifica la natura.

Il Movimento Federalista Europeo denuncia che le parole d’ordine e gli obiettivi proposti in vista della manifestazione mettono a rischio lo stesso sviluppo del processo d’integrazione europea e riafferma con forza, rivolgendosi in primo luogo ai giovani e a tutti i cittadini, l’urgenza di costruire un’altra Europa, democratica, federale e solidale tanto al suo interno che con gli altri popoli

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http://www.bundeskanzlerin.de/Content/EN/Reden/2012/2012-11-07-merkel-eu.html;jsessionid=4F5CD514029E206A898238BCF566AE26.s2t1?nn=77278

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Il 12 ottobre 2012, il comitato norvegese per il Nobel ha assegnato quello per la Pace all’Unione europea. Il voto è stato unanime, come annunciato dal presidente del comitato Thorbjorn Jagland. Il premio di otto milioni di corone svedesi è stato assegnato per “aver contribuito per sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa”.

 

Non è certo la prima volta che un’organizzazione internazionale riceve tale riconoscimento, anzi. Proprio il primo Nobel fu assegnato, nel 1901, al fondatore della Croce Rossa, Jean Henri Dunant. La stessa Croce Rossa ha ricevuto il premio, con diverse motivazioni, ancora nel 1917, 1944 e 1963. La Nazioni Unite l’hanno ricevuto ben sette volte; l’ultima è del 2007, andata al Comitato Intergovernativo per i Mutamenti Climatici.

 

Giusto per la cronaca, anche per dare il giusto peso alla lieta notizia giunta ai vertici istituzionali dell’Ue, è bene ricordare che il premio vede tra gli insigniti al merito tre presidenti degli Stati Uniti, da Theodore Roosevelt, passando per Jimmy Carter e sino a Bark Obama, in buona compagnia di  Willy Brandt, Lech Walesa, Michail Gorbacev, Yasser Arafat, Scimon Peres, Yizhak Rabin e Al Gore, ma non è stato mai assegnato al Mahatma Gandhi. Guarda un po’ la combinazione.

 

Solo dal 1987 il comitato esprime una motivazione per il prestigioso riconoscimento, e quella per l’attribuzione all’Unione, non fa un grinza. E’ indubbio che l’organizzazione in oggetto abbia contribuito (non certo da sola andrebbe aggiunto, ma è una pura ovvietà), al consolidamento di rapporti pacifici tra paesi storicamente in permanente conflitto nel vecchio continente, Francia e Germania in testa. E’ stata anche un elemento catalizzatore di interessi economici che hanno sospinto paesi in regimi dittatoriali (Spagna, Portogallo, Grecia e successivamente gli stati satelliti dell’Urss) verso modelli di democrazia consolidata. Ed ancora. Il suo impegno nell’affermazione dei diritti umani, per quanto con politiche contraddittorie ed non sempre adeguatamente sostenute finanziariamente, è indubbio.

 

Ma. Esiste un ma grande come una casa. Con una punta di ironia tutta britannica e dopo l’invito di Herman Van Rompuy (Presidente del Consiglio Ue) ai ventisette capi di stato e di governo perché vadano ad assistere alla cerimonia del prossimo 10 dicembre ad Oslo, David Cameron ha affermato : “ci sarà gente a sufficienza per ritirare il premio”, e c’è da scommetterne. Il Primo ministro britannico non si è fatto sfuggire anche una notazione di merito: “anche la Nato ha contribuito”. Vero, quanto a contributo anche la Nato ha giocato un ruolo del tutto simile all’Ue per la pace, la democrazia e l’affermazione dei diritti umani. Come si potrebbe mai negarlo? Probabilmente anche il Patto di Varsavia è stato un elemento equilibratore di spinte centrifughe che stavano per condurci nel precipizio del terzo conflitto mondiale. E allora?

 

E allora, aver contribuito a, come dichiarato nella motivazione, non toglie nulla a tutto ciò che l’Unione europea non ha fatto o meglio, non è grado di fare, tanto nell’immediato che in prospettiva. E’ qui il discrimine di chi vuol far finta di non capire.

 

Tra i commenti che si sono susseguiti alla notizia dell’assegnazione del Nobel, si annoverano quelli dei tiepidi europeisti (ovviamente  celebrativi di ciò che si ha, del contingente). Altre reazioni, o per motivi dello spirito, come per i costruttori di pace, o per motivi politici, come per i federalisti, sono state ponderatamente critiche, se non, in alcuni casi, apertamente, dissacratorie.

 

Alcuni europeisti alla giornata sono arrivati persino ad avanzare l’ipotesi che ben per altre motivazioni, alla memoria, dovesse essere ritirato il premio. Si è tirata in ballo addirittura la figura di un autentico gigante del pensiero federalista, Altiero Spinelli. Perché non allora alla memoria di Paul Henri Spaak. In tal caso sarebbe stata la nipote Catherin a dirigersi verso Oslo, con indubbio piacere tanto per gli occhi e che per la mente.

 

Tanto i pacifisti che i federalisti sono costruttori. I primi coltivano, su se stessi prima che sugli altri, atteggiamenti sociali e culturali. I secondi vogliono erigere strutture politiche sovranazionali. Entrambi hanno però una caratteristica che li accomuna:  rivendicano, chiedono e si adoperano per ciò che non esiste; non  hanno alcuna tendenza a  crogiolarsi di quel po’ che è già sotto i nostri occhi.

 

Per i federalisti, in particolare, è determinante sottolineare come i paesi del vecchio continente, Francia, Germania ed Italia in testa, pur se animatori, sessantanni or sono, della prima Comunità del carbone e dell’acciaio, oggi si sottraggano ad una precisa responsabilità storica che ricade su di loro: quella  responsabilità che dovrebbe condurli  a dichiarare l’impegno per la fondazione di una prima vera e definita entità statuale supernazionale.

 

Solo con un’autentica Federazione politica si entrerebbe in quell’ambito di irreversibilità del processo di integrazione che molti già danno per acquisita. Tra l’altro, i più avveduti, si rendono anche ben conto che  il processo potrebbe anche fermarsi, se non addirittura implodere, sotto le spinte di interessi non più concomitanti.

 

Solo con lo Stato Europa si potrebbe svolgere un’attiva opera di pacificazione a livello internazionale nelle principali aree di crisi, ad iniziare dal Medi Oriente.

 

E’ evidente che ciò interessa molto poco ai membri del comitato norvegese per il Nobel, figli di un popolo che ha scelto per ben due volte, con referendum, di rifiutare la prospettiva stessa dell’integrazione europea. La prima consultazione che ha dato esito negativo è del 25 settembre 1972, sull’adesione alle Comunità europee. Altro referendum dove i norvegesi si sono espressi per il no è quello sull’Unione europea del 27-28 novembre 1994. A seguito di questi espliciti dinieghi a nessuno è venuta in mente la balzana idea di chiedere ritorsioni, che so, prevedendo il boicotaggio dello stoccafisso all’interno del mercato unico, ma venirci ora a fare la lezioncina sulle doti maieutiche del processo di integrazione ha veramente del paradossale.

 

Il prossimo 10 dicembre il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, andranno insieme a Oslo per ritirare il Nobel per la pace.

 

Nel corso di una conferenza stampa lo stesso Schulz ha ironizzato dicendo: Herman ritirerà la medaglia , Jose’ Manuel il certificato, e io la moneta’’.

 

Non c’è che dire. Sono mille i buoni motivi per cui non ritirare il premio, almeno fin tanto che alcuni volenterosi non abbiamo fondato la prima vera Federazione nella più ampia Unione.

 

La foto di rito chiede di mettersi in posa, ognuno, di par suo, per tentare di passare a maggior gloria. C’è da scommettere che lor signori, impettiti e gaudenti, continueranno a far finta di non vedere il baratro della dissoluzione della più grande, ed incompiuta, ambizione politica del novecento.

 

Nicola Forlani

 

Campoleone, 21 ottobre 2012

 

 

 

 

 

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La commissione che conferisce il premio nobel per la pace, ha deciso di insignire di tale riconoscimento per il 2012 l’Unione Europea, motivando la scelta con il ruolo che Bruxelles ha avuto nella riconciliazione del continente europeo e con il suo impegno per la pace e per i diritti umani. Gli euroscettici di diversa estrazione hanno contestato aspramente una decisione che premia un’Unione in crisi, che non ha saputo risolvere la questione dei Balcani, che si è spaccata sull’Iraq e sulla Libia e che è associata al terzo reich dai manifestanti in Spagna e in Grecia.

Certo le contestazioni degli euroscettici non vanno sottovalutate d’ufficio, ma bisogna riconoscere che le motivazioni della commissione di Oslo non sono deboli.

Il lungo cammino dell’Unione Europea è iniziato con il trattato di Parigi che istituiva la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, era il 1951. Negli ottant’anni precedenti l’Europa era stata insanguinata da tre gravi conflitti, tutti direttamente o indirettamente provocati dalla rivalità franco-tedesca e si pensò di mettere in piedi una rete di organizzazioni economiche che potessero evitare nuovi conflitti tra la Francia e la Germania. L’Unione Europea dal 1992 in avanti e prima i suoi antesignani hanno di certo garantito che l’Europa non venisse di nuovo dilaniata dalle dispute tra i due grandi stati dell’Europa occidentale/continentale, si può quindi affermare che l’obiettivo per cui è stata concepita (o meglio l’obiettivo per cui le comunità che l’hanno preceduta sono state concepite) è stato centrato, e dopo il 1945 a molti milioni di cittadini europei (purtroppo non a tutti) è stata risparmiata la tragedia della guerra. Tutto questo oggi pare sia stato spazzato via dalla memoria di troppi europei e sono troppi coloro che ritengono che la guerra sia per sempre  divenuta incompatibile con l’Europa, non sono bastate le guerre balcaniche per fare capire agli europei che la vecchia e cattiva Europa (espressione di uno storico dell’Europa orientale di cui mi approprio), quella della débacle di Emile Zola, di Verdun e della Shoa non è morta per sempre.

E’ un peccato che molti Europei abbiano dimenticato questa storia, sono lieto che una commissione di un paese europeo che si è sempre tenuto lontano dall’Unione abbia cercato di farci ritornare la memoria.

Poi, negli anni, il progetto della casa comune europea si è arricchito di altri contenuti, per rispondere alle sfide della guerra fredda prima e, dopo il 1989, di quello che è stato definito nuovo disordine globale. Una corretta ed armonica evoluzione dell’Unione Europea è divenuta presupposto per la sua sopravvivenza, avanzare sui nuovi fronti è diventato presupposto per non arretrare sui vecchi.

Questo premio vuole essere un ponte tra il passato e il futuro, è un tentativo di valorizzare un passato di difesa della pace  e dei diritti umani (purtroppo non senza alcune ambiguità), è un tentativo di ricordare per il presente che nessuna conquista è per sempre, è una sorta di investitura per il futuro, per un Unione che oggi è in affanno ma se domani scomparisse se ne sentirebbe la mancanza, sia perché non bisogna dare per scontato che nel 2012 la pace e i diritti umani siano qualcosa di cui gli europei non possono essere privati, sia perché per uscire dalla crisi serve una capacità di impattare su variabili globali che ormai i singoli stati europei non possono più governare. Occorre evitare che un modello valido sia seppellito dallo spread e dai debiti,  occorrono nuove regole per l’economia sempre più globalizzata, occorre la globalizzazione dei diritti che (bene o male) hanno gli europei, occorre dare un senso alla primavera araba, occorre stroncare i germi del fondamentalismo religioso e del terrorismo. Lavoriamo tutti perché l’Unione Europea presto vinca un altro nobel per aver raggiunto tali obiettivi.

Certo quando da due anni non passa giorno senza che sulle prime pagine dei giornali si parli d’Europa in crisi e senza che nei talk show ci si interroghi sulla fine dell’Euro, fa piacere che  arrivi un tale riconoscimento proprio da un paese da molti ritenuto in salute perché non aderito all’Unione Europa, è la prova tangibile che esiste ancora quella forza d’attrazione che ha trasformato un’organizzazione internazionale di sei stati dell’Europa occidentale e continentale in un’Unione di ventotto stati Europei; il nobel non è solo un incoraggiamento o un premio alle intenzioni, è anche un invito a procedere velocemente verso un’integrazione ulteriore delle economie e dei sistemi finanziari dell’Unione Europea, e se qualcuno inizialmente si defilerà (si pensi alla Svezia, alla Gran Bretagna, alla Repubblica Ceca) pazienza, sarà necessario andare avanti e rimettere in piedi la zona euro con chi sta al gioco, gli altri capiranno dopo, si adatteranno alle nostre regole, come già è successo tante altre volte.

Il nobel deve renderci orgogliosi, ma non ci deve fare dimenticare che a Bruxelles molte cose devono cambiare, come forse anche molte facce.

di Salvatore Sinagra

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Ormai da diversi mesi, almeno  dal Consiglio Europeo di giugno, si parla di Unione Bancaria; qualche commentatore soprattutto di estrazione federalista ha affermato che tutto sommato gli unici passi avanti del vertice di giugno sono avvenuti convergendo verso un accordo sulla regolamentazione delle banche, al contrario qualche irriducibile euroscettico ha cercato di urlare contro l’Unione Europea che ancora una volta salva le banche e non il popolo europeo. Ma cosa sta succedendo effettivamente?

La mia premessa è che a me non piace il termine Unione bancaria, io preferirei si parlasse di costituzione di un’Autorità Europea per la vigilanza sul settore bancario; con l’espressione Unione Bancaria si identifica un sistema che poggia su tre pilastri: (i) l’istituzione di un’autorità di vigilanza europea sulle banche; (ii) una procedura europea di gestione delle crisi bancarie; (iii) un sistema di garanzia europeo sui depositi bancari. Il significativo impegno delle istituzioni comunitarie su tale fronte è forse anche frutto delle crescenti difficoltà delle banche spagnole e della circostanza che difficilmente il governo  spagnolo riuscirà  a ricapitalizzarle.  Con il Consiglio Europeo di giugno i  leader europei affermano la necessità di varare l’Unione Bancaria, poi informalmente i governi indicano nella BCE il soggetto che assurgerà alla supervisione del sistema bancario europeo ed infine il parlamento europeo si dichiara favorevole all’investitura della BCE  a condizione che sia esercitato il controllo democratico da parte del parlamento.

Possiamo sintetizzare che l’Unione Bancaria è quindi un meccanismo di gestione della fisiologia (come  prevenire le crisi del sistema bancario) sia della patologia (come ci comportiamo se un istituto di credito è prossimo al defualt). L’Unione Bancaria non è quindi un regalo alle banche. Ma un insieme di regole

A prima vista l’Unione Bancaria potrebbe quindi sembrare una risposta (più o meno precisa e opportuna) all’ultima bomba ad orologeria posta sotto l’Unione Europea, ma così non è poiché le autorità dell’Unione Europea, quando nel 2008 e nel 2009 si sono attivate con l’obiettivo di fare almeno un’analisi della situazione ed hanno istituito prima un comitato (comitato europeo per il rischio sistemico), poi un’agenzia per il controllo del sistema bancario (nota con l’acronimo inglese di Eba) infine è stato istituito un gruppo di studio, il gruppo Liikanen con la finalità di produrre un rapporto sulle possibili riforme di lungo periodo del settore bancario. Parlare di Unione Bancaria oggi necessita molte premesse e la regina di queste premesse è che la proposta di deve essere analizzata nel più ampio tentativo di modificare la regolamentazione della finanza e a proposito vi sono differenti punti di vista sull’importanza delle singole iniziative: personaggi di rilievo come il vicepresidente del parlamento europeo Gianni Pittella e il presidente del gruppo Montepaschi di Siena Alessandro Profumo affermano che l’Unione Bancaria è la riforma più importante, altri (in primis i membri del gruppo Liikanen) affermano che se nel 2007 vi fosse stata una regolamentazione del settore bancario che avesse separato la banca di deposito da quella di investimento il caso Lehman Brothers
non si sarebbe verificato, altri infine vedono nella tobin tax il migliore intervento per domare la finanza: la speculazione ha significativi costi sociali, una tassa sulle speculazioni potrebbe esser lo strumento per far fronte almeno i  parte a tali costi. Non voglio entrare nel merito di quale sia il migliore o il più urgente di tali interventi, soprattutto perché si tratta di provvedimenti di sicuro tra loro compatibili e forse anche complementari.

Altra premessa e che a livello di G20 esiste una regolamentazione comune dell’attività bancaria segnatamente alle dotazioni di capitale che le banche devono avere, si tratta degli accordi di Basilea, che sono oggetto di molteplici controversie. Gli accordi non sono rimessi in discussione dall’Unione Bancaria ma la BCE vigilerà anche su loro rispetto.

La posizione del parlamento europeo può suscitare dubbi sui singoli dettagli, ma è assolutamente necessario che in breve tempo sia tradotta in provvedimenti vincolanti. Oggi serve quella che ormai tutti chiamano Unione Bancaria perché noi europei non possiamo permetterci un’altra “Lehman Brothers a casa nostra”, l’Unione Bancaria potrebbe essere fondamentale sia per la tenuta dell’euro che perché tutti i paesi che oggi aderiscono all’unione continuino ad essere “paesi di prima fascia” sotto il profilo di quelli che gli anglofoni chiamano living standard.

L’Unione bancaria è prima di tutto un meccanismo di prevenzione e risoluzione delle crisi bancarie  e di ricapitalizzazione della banche, ad oggi è chiaro che i paesi che sono costretti a rincorrere lo spread qualora si trovassero di fronte ad una crisi bancaria di significativa portata non sarebbero in grado di ricapitalizzare le banche (il caso spagnolo e sotto gli occhi di tutti), l’Unione Bancaria potrebbe essere quindi, mutuando un’espressione di Guy Verhofstadt, “un sistema di mutualizzazione dei rischi del settore bancario” e se per la mutualizzazione del debito i cittadini dei paesi più virtuosi possono eccepire che per loro non è equità pagare i debiti dei paesi meno efficienti, la situazione è palesemente diversa per quanto riguarda la sostenibilità del sistema bancario. I debiti sono ancora nazionali, l’operatività delle banche trascende i confini degli Stati nazionali.

Oggi è palese che l’efficacia dei controlli delle autorità di vigilanza sul settore bancario nell’Unione Europea è abbastanza difforme, se per esempio in  Italia gli istituti di credito non corrono fino a prova contraria i rischi delle banche spagnole o irlandesi è perché sono stati “vigilati” meglio; occorre un organo unico che vigili sul rispetto di una regolamentazione comune e lo faccia utilizzando le prassi migliori (quelle più rigorose), perché scrivere regole comuni non basta, serve poi che ovunque vi sia lo stesso impegno affinché possano esser rispettate.

Accentrare i controlli sulla BCE tra l’altro garantirebbe maggiore terzietà, oggi i grandi istituti bancari hanno un significativo peso nelle scelte delle autorità che le vigilino, affidare i controlli alla BCE diluirebbe il potere dei singoli istituti vigilati, infine sottoporre tutte le banche alle medesima autorità, alle medesime regole ed alle medesime prassi sarebbe un elemento di completamento del mercato interno e quindi garantirebbe una più equa concorrenza tra i diversi istituti di credito, evitando anche il rischio che vi sia una competizione al ribasso tra le diverse autorità nazionali, ovvero il rischio che le autorità di vigilanza adottino prassi non troppo rigorose per paura di porre in situazioni di svantaggio competitivo le proprie banche (si noti a proposito che il sistema bancario italiano più caratterizzato da una buona vigilanza e da buoni meccanismi di gestione delle crisi, per questo le banche italiane, così come il governo e Banca d’Italia supportano la convergenza sull’Unione Bancaria).

Ritornando all’attualità è stato accertato che l’Unione Europea procederà a ricapitalizzare alcune banche (essendo un po’ più precisi la BCE concorrerà alla ricapitalizzazione delle banche spagnole), trattandosi di un intervento nuovo e significativo dal punto di vista delle risorse necessarie, non si può prescindere di definire un quadro normativo, l’Unione Bancaria servirà anche a questo.

Infine oggi è palese che i singoli Stati non sono in grado di regolamentare autonomamente banche e finanza, deve far riflettere che almeno da due decenni (quindi prima della vicenda Lehman Brothers) si tenti di convergere su una regolamentazione condivisa a livello internazionale, un sistema bancario unico è un passo importante affinché sul tema l’Unione Europea parli con una sola voce  e riesca  a concorrere alla definizione di una governance internazionale.

A questo punto i dubbi sono legittimi. Alcuni per esempio si chiedono perché la funzione di vigilanza debba essere attribuita alla Banca Centrale Europea, ma  forse sarebbe opportuno chiedersi al contrario per quale motivo di tale incarico dovrebbe essere investito un altro soggetto. La funzione di vigilanza del sistema bancario tradizionalmente è propria dell’istituto che batte moneta, le banche nazionali dell’area euro attualmente non battono moneta ma vigilano sui loro sistemi bancari, è razionale pensare, che se si accentra a livello dell’Unione Europea il sistema dei controlli di tale sistema se ne farà carico chi batte moneta, infine la vigilanza bancaria può essere (a mio avviso non a torto) ritenuta fondamentale per la tenuta dell’euro è quindi bene che se ne incarichi chi vigila sull’euro. Si noti che l’Unione Europea aveva costituito un’apposita agenzia per vigilare il sistema bancario, l’eba, che adesso è probabile venga incorporata dalla BCE. E’ stato poi segnalato il rischio di commistioni tra la politica di vigilanza e quella monetaria, tuttavia l’eurotower ha fatto sapere che si doterà di un assetto amministrativo tale da prevenire la sovrapposizione delle due funzioni.

A tal punto ci si domanda quali possano essere le misure richieste dalla BCE per procedere ad operazioni di ricapitalizzazione e soprattutto se i destinatari di tali misure possano essere le sole banche ricapitalizzate o anche gli Stati di residenza delle  stesse, per le considerazione già fatte prima, a mio modesto parere, sarebbe opportuno che se la BCE salva una banca, faccia richieste solo ed esclusivamente alla banca salvata. A proposito si noti che nelle ultime settimane il governo di spagnolo è parso abbastanza ondivago sula questione della ricapitalizzazione delle banche, forse l’Unione Bancaria darebbe la possibilità per Madrid di trattare solamente con la BCE e non dover negoziare con la famigerata Troika? Forse a Madrid hanno motivo di ritenere che ad Unione Bancaria fatta potrebbero ottenere condizioni migliori? Di certo tagliando fuori il Fondo Monetario Internazionale dalla gestione delle crisi delle banche europee, le istituzioni europee ne uscirebbero rafforzate, a condizione, ovviamente, di saper gestire le crisi.

Infine c’è il tema del controllo democratico, prerogativa che il parlamento richiama per se, è  questo forse il passaggio più arduo da decifrare. Sicuramente il Parlamento Europeo non si intrometterà nelle questioni operative e di vigilanza, quello che potrà però fare è concorrere a definire il quadro regolamentare in cui si muoverà la BCE e soprattutto imporre alla BCE trasparenza anche per mezzo di obblighi di relazioni periodiche e su tematiche specifiche (per esempio una ricapitalizzazione di una banca); infine qualora si accettasse il principio che per procedere ad una ricapitalizzazione si debbano imporre condizioni anche agli Stati, alla definizione di tali condizioni potrebbe concorrere il parlamento. Il controllo democratico potrebbe quindi essere la strada per mitigare il ruolo della BCE, che come polemicamente sottolinea qualcuno potrebbe diventare una banca troppo centrale.

In conclusione la proposta che prende il nome di Unione Bancaria appare lo strumento più adeguato a garantire la stabilità ed il buon funzionamento del mercato bancario, i suoi benefici sono nettamente superiori ai suoi costi e se qualcuno teme che l’equilibrio dei poteri nell’Unione Europea possa divenire troppo sbilanciato a favore della BCE è bene puntualizzare che oggi la voce dell’istituto di Francoforte si sente troppo forte soprattutto perché le altre istituzioni parlano troppo piano, esistono strumenti per far si che la disciplina della finanza non sia una partita giocata solo dalla BCE, ma le altre istituzioni devono voler essere della partita.

Salvatore Sinagra

Milano, 5 Ottobre 2012

 

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Cari amici,

 

vi inoltro i documenti approvati nell’ultima direzione nazionale MFE sui temi che abbiamo lungamente affrontato nell’interessante dibattito durante la nostra ultima riunione.

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Vorrei attrarre la vostra attenzione sul Memorandum inviato al Presidente del Consiglio Mario Monti che ben sintetizza le richieste avanzate dai federalisti.

 

Inoltre informo che durante l’ultima riunione è stato dato mandato al nostro iscritto Stefano Milia, Seg. gen. CIME, (progetti@movimentoeuropeo.it) di adoperarsi per organizzare un dibattito co-promosso dal MFE Roma e dal Movimento europeo sulle possibili forme di rilancio del processo costituzionale nell’ambito della mobilitazione MFE in vista del prossimo Consiglio europeo, di cui trovate notizia qui di seguito.

 

Ovviamente vi terremo aggiornati su queste e altre iniziative, che potremo discutere insieme a inizio mese alla prossima riunione di sezione.

 

Ciao

Paolo Acunzo

Seg. MFE Roma

 

 

Ai Membri della Direzione nazionale
Ai Membri del Comitato Centrale

Cari Amici,
vi allego la mozione ed il Memorandum al governo Monti adottatti all’unanimità dalla Direzione del 15 settembre, che ha visto la partecipazione di una quarantina di militanti, tra cui diversi giovani, ed una quindicina di interventi nel dibattito.
Come sapete, nel 2013 si celebreranno settant’anni di vita del MFE. Per cercare di sfruttare politicamente al meglio questo anniversario, la Direzione ha proposto di tenere il nostro prossimo Congresso nazionale nella città in cui fu fondato.
Per questo la Direzione ha chiesto alla Sezione MFE di M ilano, che ha accolto l’invito, di predisporre un piano organizzativo da sottoporre al prossimo Comitato centrale di novembre, per convocare nella prossima primavera il XXVI Congresso MFE a Milano.
Come vedete dalla mozione sull’azione e dal contenuto del Memorandum, ci attendono dei mesi di intensa attività, e anche di maggiore stimolo e contestazione nei confronti del fin qui inerme Parlamento europeo, a partire dalla settimana di mobilitazione dal 13 al 17 ottobre, durante la quale le sezioni MFE sono chiamate ad organizzare iniziative pubbliche, incontri, dibattiti nelle loro città in vista del vertice europeo del prossimo mese. Anche in altre città europee si stanno programmando iniziative per quella settimana, in collaborazione con l’UEF e la JEF (quest’ultima sotto l’impulso della GFE). Ma su questo avremo modo di tornare nelle prossime circolari.
Gli strumenti e i documenti per agire non mancano. Co me non mancano diversi esempi di mobilitazi! one che sono stati avviati da molte sezioni, né mancano alcune adesioni di enti e personalità ai documenti promossi dal MFE a cui far riferimento per rilanciare l’attività dopo la pausa estiva.
Augurandovi buon lavoro, vi saluto cordialmente
Franco Spoltore

Seg. naz. MFE

 

 

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Il sistema di governance dell’Unione europea, quale creato dai suoi Trattati istitutivi e modificato dai Trattati successivi, non è mai stato coerente con i principi di legittimità democratica propri degli Stati nazionali.  Basti ricordare che il principio fondamentale della separazione dei poteri, secondo cui nessun organismo può esercitare al tempo stesso i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, é contraddetto nell’Unione europea da un’Istituzione quale la Commissione europea. Quest’ultima partecipa al processo legislativo con il suo diritto quasi esclusivo di iniziativa legislativa, partecipa al potere esecutivo con le sue circa 2.500 decisioni “esecutive” annuali e partecipa anche al potere giudiziario quando prende decisioni e commina sanzioni in materia di concorrenza e di aiuti di Stato che non siano contraddette dalla Corte europea di Giustizia. Nel numero 47 dei “Federalist Papers”, Madison condivide l’affermazione di Montesquieu  secondo cui “l’organo legislativo non deve mai esercitare il potere esecutivo e quello giudiziario o entrambi” ; lo stesso vale per l’organo esecutivo e per quello giudiziario.  La principale conseguenza del diritto esclusivo d’iniziativa legislativa attribuito alla Commissione europea è l’assenza di tale diritto in capo al Parlamento europeo che – contrariamente ad ogni Parlamento nazionale – può solo chiedere alla Commissione europea la presentazione di una proposta di legge.  Naturalmente, questa particolarità della governance europea ha avuto una duplice giustificazione : da un lato, la Commissione europea deve esaminare le legislazioni nazionali e tener conto degli interessi degli Stati membri prima di proporre un progetto di legge europea; dall’altro, un progetto di legge europea presentato da una maggioranza di parlamentari europei potrebbe difficilmente prendere in considerazione gli interessi degli Stati meno popolati.

Questa “anomalia” della governance europea è aggravata dal fatto che il Consiglio europeo dei Ministri esercita sia funzioni legislative che esecutive previste dai Trattati (per esempio in materia di politica estera) e può anche auto-delegarsi nuove funzioni esecutive (almeno nei settori di competenza dell’Unione europea dove può adottare un atto legislativo senza l’accordo del PE).

Per questi motivi, Giuliano Amato disse nel suo intervento iniziale alla Convenzione europea nel 2002 che “Montesquieu non aveva mai visitato Bruxelles” (anche se il Trattato uscito dai lavori della Convenzione non ha ristabilito il principio della separazione dei poteri, ma ha solo corretto alcune anomalie secondarie, quali il potere della Commissione europea di modificare il contenuto di leggi europee senza l’accordo del potere legislativo).

Per queste ed altre ragioni, molti analisti del progetto di integrazione europea hanno ritenuto che l’Unione europea soffra di un “deficit democratico” o comunque non rispetti i principi del costituzionalismo sviluppati dalla tradizione illuministica europea (quali i principi del governo limitato, della dichiarazione dei diritti, delle “checks and balances” e della separazione dei poteri). Pertanto, sostiene Stefano Bartolini nel suo saggio “Taking Constitutionalism and Legitimacy seriously” (1), i termini di “Costituzione” e di “legittimità” democratica non dovrebbero essere utilizzati abusivamente allorché i principi del costituzionalismo moderno sono molto deboli o addirittura assenti nei Trattati europei.  Un altro analista della “democrazia europea” quale Philippe C.Schmitter ritiene che nella sua attuale configurazione istituzionale il sistema di governo dell’Europa non è una democrazia e non lo diventerà finché i suoi membri non decideranno di darsi nuove regole e diritti (nel suo saggio “Come democratizzare l’Unione europea” (2) viene citata la battuta secondo cui l’Unione europea non potrebbe aderire a sé stessa poiché non rispetterebbe i criteri di democraticità richiesti ai paesi candidati).  Secondo l’analisi di Fritz Scharpf, non c’é alcun dubbio che l’Unione è ben lontana dall’essere pervenuta ad un’identità collettiva “forte” che sembra evidente nelle democrazie nazionali. In mancanza di tale identità, le riforme istituzionali non potranno accrescere sensibilmente la legittimità, in termini di inputs, delle decisioni prese in applicazione del principio maggioritario (3).

La letteratura sul “deficit democratico” dell’Unione é molto vasta e non può essere riassunta in questa sede.  Basterà ricordare che secondo un altro analista della costruzione europea, il Prof. Joseph Weiler, l’Unione europea sarà democratica solo quando i cittadini europei potranno “mandare a casa” i loro governanti dopo un’elezione europea (il Prof. Weiler non precisa tuttavia se debbano essere “mandati a casa” i membri della Commissione europea, il suo Presidente oppure il Presidente del Consiglio europeo).

Un altro analista della governance europea, il Prof. Sergio Fabbrini, definisce l’Unione europea una “democrazia composita” riferendosi all’esperienza costituzionale degli Stati Uniti (“compound democracy” secondo l’espressione di Madison). Sergio Fabbrini distingue la democrazia europea dai modelli democratici consolidatisi negli Stati membri e individua la sua caratteristica peculiare in un “processo decisionale non monopolizzabile da parte di una singola Istituzione”. In un senso analogo, altri analisti della governance europea quali Moravcsik e Renaud Dehousse riassumono il problema nella domanda seguente : una nuova democrazia sovranazionale europea deve fondarsi necessariamente sugli stessi principi costituzionali che hanno ispirato le democrazie parlamentari nazionali ?  Nella sua sentenza del 30 Giugno 2009, la Corte costituzionale tedesca – la più scrupolosa nella difesa dei principi democratici – ha cercato senza successo di dare una risposta univoca a questa domanda : da un lato ha riconosciuto  (si veda il paragrafo 227 della sentenza) che la democrazia sovranazionale europea non può fondarsi necessariamente sugli stessi principi della democrazia nazionale, dall’altro contraddice questa affermazione quando ritiene che il Parlamento europeo non rispetti nella sua composizione il principio “one man, one vote” proprio degli Stati nazionali (vedere i par. 285-286 della sentenza).

Va certamente riconosciuto che il Trattato di Lisbona ha introdotto una serie di miglioramenti nel funzionamento della governance europea.  Basti pensare all’aumento dei poteri legislativi e di bilancio del Parlamento europeo, al legame introdotto tra la scelta del Presidente della Commissione europea e i risultati delle elezioni europee, al rafforzamento sia pure limitato del ruolo dei Parlamenti nazionali, alla soppressione dell’anomalia che permetteva alla Commissione europea di modificare il contenuto di una legge europea senza l’accordo del legislatore europeo. Due  progressi ulteriori sul piano democratico introdotti dal trattato di Lisbona sono stati il riconoscimento della democrazia partecipativa con il diritto di iniziativa legislativa, sia pure indiretto, da parte di un milione di cittadini europei nonché il carattere vincolante per i tribunali della Carta dei diritti fondamentali che pone dei limiti all’azione legislativa europea. Tuttavia, tali elementi di maggiore “democraticità” dell’Unione europea non hanno eliminato le anomalie principali della governance europea presenti nei Trattati e nella pratica istituzionale :

1)      la Commissione europea continua a godere del diritto quasi-esclusivo d’iniziativa legislativa (esteso nel frattempo alla cooperazione giudiziaria e di polizia, mentre gli Stati membri hanno perso parallelamente il loro diritto d’iniziativa individuale preesistente) con il solo obbligo complementare di fornire una motivazione nei casi in cui rifiuti di dare seguito alle richieste di proposte legislative emananti dal Parlamento europeo o dal Consiglio europeo dei Ministri. (Beninteso, questa affermazione si riferisce al diritto formale d’iniziativa di cui dispone la Commissione e non tiene conto del fatto che tale diritto é stato sostanzialmente eroso nei fatti dal ruolo crescente assunto dal Consiglio europeo e dalla pratica della Commissione di dare un seguito positivo al 95% delle richieste legislative ricevute dagli Stati membri, dalle altre Istituzioni e dai gruppi di pressione).

2)      Il Parlamento europeo, malgrado l’aumento dei suoi poteri sancito dal Trattato di Lisbona e rafforzato nella pratica attraverso gli accordi istituzionali conclusi con la Commissione europea, non è riuscito ancora a imporsi come un’Istituzione realmente rappresentativa dei cittadini europei. Questo non é dovuto tanto alla scarsa partecipazione elettorale alle elezioni europee (chi contesterebbe la rappresentatività della Camera dei Comuni o del Parlamento olandese solo in base ad una partecipazione elettorale inferiore al 50% ?) quanto alla procedura elettorale europea, all’assenza di veri e propri partiti politici europei nonché all’impossibilità per il cittadino europeo di influenzare direttamente la nomina di un governo europeo e la scelta di un programma di legislatura.  Le elezioni europee sono in realtà elezioni nazionali basate su liste di candidati nazionali e non transnazionali, scelti da gruppi politici che non presentano veri e propri programmi alternativi ma solo manifesti alquanto vaghi e fortemente simili tra di loro (almeno per i tre principali gruppi politici) e che non sono ancora riusciti a proporre dei propri candidati alla carica di Presidente della Commissione europea (malgrado il Trattato di Lisbona avesse già autorizzato in pratica tale scelta).  Questa situazione è dovuta al fatto che il Parlamento europeo è obbligato ad inserirsi in un processo continuo di negoziati e di compromessi, in una sorta di “grande coalizione”che impedisce ai candidati alle elezioni europee di fare delle promesse elettorali precise come lo fanno i partiti politici nelle elezioni nazionali.  Questo vale anche per il lavoro legislativo in seno al Parlamento europeo poiché quest’ultimo può esercitare un’influenza decisiva nei riguardi del Consiglio dei Ministri solo quando riunisce una maggioranza assoluta su un testo specifico di un progetto di legge europea (si veda per esempio l’accordo tra popolari e socialisti sulla direttiva detta Bolkestein o sul regolamento REACH relativo ai prodotti chimici).  Detto altrimenti, la cultura politica del Parlamento europeo è largamente consensuale, il che rende molto difficile al cittadino europeo scegliere il partito da votare alle elezioni europee sapendo che la sua scelta non avrà una grande influenza né sulla nomina del Presidente della Commissione europea né sul contenuto delle leggi europee.  Inoltre, il carattere vago e non chiaramente alternativo dei manifesti pubblicati dai partiti politici europei al momento delle elezioni europee si spiega, da un lato, con il largo spettro di opinioni politiche che esistono all’interno dei gruppi politici e, dall’altro, con l’impossibilità dei candidati ad impegnarsi a realizzare, una volta eletti, un programma politico o legislativo specifico. A questi elementi si aggiunge l’inesistenza di un rapporto diretto tra la scelta elettorale del cittadino europeo e l’investitura di un governo europeo che ottenesse la fiducia da parte di una maggioranza politica in seno al Parlamento europeo.  Questa situazione di fatto potrebbe essere modificata da una decisione dei principali gruppi politici al PE di presentare un loro candidato alternativo alla Presidenza della Commissione europea.  Anche se tale decisione non risolverebbe il problema dell’assenza di un vero e proprio governo europeo responsabile di un programma di legislatura di fronte al Parlamento, essa permetterebbe tuttavia di introdurre un legame politico diretto tra il voto del cittadino europeo e la scelta del Presidente della Commissione europea. Secondo alcuni analisti della governance europea, tale procedura permetterebbe di rafforzare la legittimità democratica dell’Unione europea e di costituire un elemento fondatore per la formazione di un “demos” europeo (4).

3)      Il terzo elemento anomalo della governance europea é costituito dal ruolo sempre più importante esercitato dal Consiglio europeo.  Mentre inizialmente le riunioni semestrali o trimestrali dei Capi di Stato o di governo si limitavano a dare impulsi alle altre Istituzioni dell’Unione o a decidere alcuni orientamenti politici generali, adesso il Consiglio europeo si è attribuito il ruolo di gestore permanente dell’Unione economica e monetaria (basti ricordare che dall’inizio della crisi economica e dei debiti sovrani, il Consiglio europeo ha tenuto ben 28 riunioni formali o informali con una frequenza quasi mensile).  Prima di analizzare l’evoluzione recente del ruolo del Consiglio europeo, va ricordato che già l’intensa attività legislativa del Consiglio dei Ministri, composto dagli esecutivi degli Stati membri, è stata criticata in quanto foriera di una “perversione” della democrazia (l’espressione è di Joseph Weiler ma è stata ripresa da altri analisti) intesa sia come supremazia dell’esecutivo sul legislativo nella produzione normativa che come possibilità per gli esecutivi nazionali di prendere decisioni poco trasparenti sfuggendo così al controllo degli elettorati nazionali (5).  Altri commentatori hanno osservato che “i poteri perduti in sede nazionali dalle istituzioni rappresentative vengono poi acquisiti in sede comunitaria da istituzioni non rappresentative o da…efficienti tecnostrutture”.  E, anticipando quanto diremo sull’evoluzione del Consiglio europeo, “se il centro politico del sistema europeo si individua nell’organo intergovernativo,….l’integrazione europea rischia di passare attraverso scelte intergovernative che, per il solo fatto di essere compiute in sede comunitaria, sono prive dei controlli politici e costituzionali cui sono sottoposte nell’ordinamento nazionale” (6).

Questa analisi si attaglia pienamente alle recenti decisioni del Consiglio europeo in materia di governance economica della zona euro.  L’insufficienza se non l’assenza di competenze dell’Unione nel campo delle politiche economiche dei singoli Stati (soggette ad un coordinamento europeo giuridicamente poco vincolante : si ricordi la violazione del Patto di stabilità nel 2003 da parte del tandem franco-tedesco rimasto non sanzionato), coniugate con la necessità di mettere in opera meccanismi di assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà ha prodotto quella che un analista ha definito “il più pesante intervento (dell’Unione europea) nelle responsabilità nazionali dotato della minore legittimità” (7).  La decisione del Consiglio europeo in data 8 Giugno 2010 che impone alla Grecia di ridurre le pensioni, i giorni festivi e le allocazioni sociali, il numero degli impiegati pubblici nonché l’adozione di nuove leggi in materia salariale (allorché il Trattato non riconosce alcuna competenza all’Unione in materia di armonizzazione dei salari) è intervenuta come altre in questioni di politica economica e sociale di competenza dei Parlamenti nazionali.  Queste decisioni hanno avuto per conseguenza che i capi di governo di alcuni paesi membri hanno dovuto, sotto la minaccia di sanzioni, ricercare ex-post delle maggioranze nei loro Parlamenti nazionali per mettere in opera ciò che avevano concordato con i loro colleghi a Bruxelles.  Questa specie di “federalismo esecutivo” – nota Jurgen Habermas – di un Consiglio europeo auto investitosi di autorità sarebbe il modello di un esercizio post-democratico del potere (8).

Una critica analoga può essere mossa nei riguardi della famosa lettera della Banca Centrale europea del 5 Agosto 2011 in cui la BCE chiede al governo italiano di adottare specifiche e incisive riforme economiche, quali la riforma del sistema pensionistico e quella del mercato del lavoro. Tali richieste da parte della BCE vanno certamente al di là dei compiti fissati dai Trattati, che riguardano essenzialmente “la gestione della politica monetaria dell’Unione” (art. 282 del TFUE).  E’ difficile contestare che la decisione del Consiglio nei riguardi della Grecia come la lettera della BCE al governo italiano creino dei “precedenti” per la governance economica dell’Unione poiché implicano una competenza di quest’ultima ad imporre precisi obblighi di politica economica in materie di competenza esclusiva degli Stati membri (nello stesso senso, si veda l’intervento di Roland Bieber del 30/09/2011 all’IUE sulle “lacune di legittimità nella gestione della crisi finanziaria dell’Unione europea (9).  Da un punto di vista di democrazia sostanziale, va anche notato che le decisioni o raccomandazioni del Consiglio in materia di politica economica non implicano nessun intervento degli organi parlamentari (né del Parlamento europeo, né dei Parlamenti nazionali) che sono soltanto informati ex-post del contenuto delle misure (tale lacuna è tuttavia imputabile alle disposizioni del Trattato di Lisbona).

Non possiamo non concordare con chi ritiene che tali interventi dei capi di Stato, del Consiglio o della BCE in materie di prevalente responsabilità nazionale provocano legittimi dubbi e preoccupazioni nell’opinione pubblica e nelle forze politiche nazionali nei riguardi dell’Unione europea.   Jurgen Habermas parla esplicitamente di “accordi presi senza alcuna trasparenza e privi di forma giuridica” che ”dovrebbero essere imposti agli esautorati parlamenti nazionali con l’ausilio di minacce di sanzioni e di pressioni varie” (10).   Andrea Manzella si chiede come le democrazie nazionali riescano a conservarsi tali di fronte alle decisioni dei nuovi modi di governance europea (11).  Alcuni analisti hanno messo in dubbio il rispetto di un principio democratico fondamentale – all’origine del ruolo dei Parlamenti nazionali – quale “no taxation without representation” a proposito sia delle misure di sostegno finanziario quali il Fondo salva-Stati (ESM), sia delle misure di austerità imposte agli Stati beneficiari degli aiuti europei.  Va notato che tale critica è avanzata sia dall’ex-membro tedesco della BCE (Otmar Issing) a proposito dei contribuenti tedeschi che dovrebbero finanziare le misure di aiuto finanziario ai paesi in difficoltà che da parte di chi ritiene che siano i cittadini dei paesi meno virtuosi a dover pagare le misure di austerità (soppressione di impieghi pubblici, riduzione dei salari e delle pensioni, ecc..) senza poter partecipare alle decisioni del Consiglio europeo o della BCE.  Un politico italiano ha riassunto questo esautoramento della democrazia nazionale nella frase : “se le decisioni di politica economica e sociale vengono prese a Berlino o a Francoforte, allora voglio votare in Germania”.  Andrea Manzella aggiuge che il problema tocca oggi la sostenibilità, da parte dei sistemi democratici, di procedure di aggiustamento dei conti pubblici che danneggiano irrimediabilmente le condizioni esistenziali della cittadinanza (12).  E’ un paradosso che la Corte costituzionale tedesca sia chiamata a pronunziarsi il 12 Settembre sulla costituzionalità, rispetto alla Legge Fondamentale tedesca, del Fondo salva-Stati quando la stessa Corte ha affermato nella già ricordata sentenza del 30 Giugno 2009 che una modifica dei Trattati europei non potrebbe mettere in causa gli elementi fondamentali dello “Stato sociale” tedesco (mentre le decisioni del Consiglio europeo o della BCE rischiano di mettere in causa elementi dello Stato sociale considerati altrettanto importanti per altri Stati membri).

I limiti del presente intervento non consentono di approfondire altri aspetti dell’anomalia democratica dell’attuale governance economica europea.  Va tuttavia ricordato che, se è vero che i nuovi Trattati relativi alla disciplina finanziaria (Fiscal Compact) e al Fondo salva-Stati (ESM) sono ratificati dai Parlamenti nazionali, il legame di condizionalità esistente tra i due testi (solo gli Stati che avranno ratificato il Fiscal Compact potranno usufruire del Fondo salva-Stati) presenta un condizionamento non dissimile da quello che esisteva per i lavoratori della FIAT al momento del referendum sul nuovo contratto di lavoro : essi potevano benissimo votare contro la conclusione del contratto ma correvano il rischio che la FIAT decidesse di rinunciare ai suoi investimenti in Italia. I parlamenti dei paesi in difficoltà come anche gli elettori irlandesi hanno subito un condizionamento analogo.  Infine, va ricordato come il Primo Ministro Papandreu abbia dovuto rinunciare alla tenuta di un referendum sulle condizioni imposte alla Grecia per beneficiare degli aiuti europei.

Questa analisi, anche se incompleta, ci porta a interrogarci sulle soluzioni possibili per rimediare all’anomalia dell’attuale governance europea.  Quest’ultima, anche se migliorata dal Trattato di Lisbona, rimane scarsamente comprensibile per i cittadini europei e presenta elementi difficilmente compatibili con i principi democratici.  Se i governi nazionali continuassero a prendere decisioni che rischiano di mettere in causa alcuni elementi importanti dello Stato sociale senza la partecipazione democratica dei cittadini e dei loro rappresentanti, questo potrebbe provocare una reazione di rigetto (già apparsa in alcuni Stati europei) contro lo stesso progetto europeo.

Le soluzioni possibili non sono molto numerose ; per brevità, ricorderemo le due principali che presentano alcune varianti :

1) la creazione progressiva di un’Unione politica europea composta dagli Stati che dispongono della moneta unica o che vi aderiranno nei prossimi anni.

Un numero sempre crescente di leaders politici,  di economisti e di analisti dell’integrazione europea ritengono che l’Unione economica e monetaria non potrà sopravvivere a lungo se non si porranno rapidamente le basi per realizzare progressivamente una vera Unione politica europea (almeno tra gli Stati partecipanti alla zona Euro).  Tale percezione sembra essere condivisa con maggiore o minore entusiasmo anche dagli attuali capi di Stato che hanno incaricato a fine Giugno un quartetto di Presidenti (Van Rompuy, Barroso, Draghi e Juncker) di presentare a Ottobre un rapporto preliminare e a Dicembre un rapporto definitivo sulle misure da prendere per rafforzare l’UEM e realizzare un’Unione bancaria, un’Unione di bilancio e, in finis, un’Unione politica europea.  Mentre un’Unione bancaria e, al limite, un’Unione di bilancio potrebbero essere create senza modificare gli attuali Trattati, un’Unione politica necessiterà certamente la conclusione di un nuovo Trattato che modifichi il Trattato di Lisbona.  L’esperienza dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona potrebbe far pensare che occorrano molti anni per concludere un nuovo Trattato, allorché l’esperienza dei Trattati di Roma e dell’ Atto unico aveva dimostrato che è possibile concludere nuovi Trattati in un lasso di tempo limitato (è vero tuttavia che il numero di Stati era più limitato e che tutte le ratifiche erano intervenute per via parlamentare e non referendaria).  Tuttavia il problema principale è legato al metodo di elaborazione di un nuovo Trattato/Costituzione che istituisca una vera e propria Unione politica europea (di natura federale per una corrente d’opinione che va al di là dei soli movimenti federalisti). La scelta del metodo tradizionale intergovernativo (Conferenza intergovernativa preceduta da una Convenzione e seguita da 28 ratifiche nazionali per via parlamentare o referendaria) non solo occuperebbe i prossimi tre o quattro anni, ma si arenerebbe di fronte alle mancate ratifiche di alcuni Stati (a cominciare dal Regno Unito).  Peraltro, i suoi risultati non sarebbero probabilmente coerenti con i principi di legittimità democratica già ricordati e attualmente mancanti.  Per queste ragioni, una corrente di opinione sempre più vasta chiede che l’Unione politica europea sia varata da un’Assemblea costituente eletta ad hoc dai cittadini europei secondo criteri di rappresentanza proporzionale (si veda ad esempio il recente articolo di Bersani sull’Unità).  Una maggioranza di federalisti e di leaders politici ritengono che spetti al Parlamento europeo, in quanto unica espressione democratica dei cittadini europei, di elaborare un progetto di nuovo Trattato da sottoporre successivamente ad un referendum “consultivo” dei cittadini europei sulla base del criterio della doppia maggioranza, semplice o qualificata, degli stessi cittadini e degli Stati partecipanti. Il carattere consultivo di tale referendum europeo sarebbe reso necessario dal fatto che in alcuni Stati europei (Germania, Italia e Belgio in particolare) un referendum vincolante sul testo di un Trattato è vietato dalla Costituzione.  Naturalmente il risultato di tale referendum, anche se consultivo, sarebbe difficilmente contraddetto dai Parlamenti nazionali chiamati a ratificare il nuovo Trattato istitutivo dell’Unione politica europea.  Tuttavia, ci sembra politicamente difficile affidare al presente Parlamento europeo, eletto nelle condizioni precedentemente ricordate e ormai prossimo alla fine legislatura, tale compito di natura costituente. Si potrebbe invece affidare un mandato costituente al nuovo Parlamento europeo che sarà eletto nel Giugno 2014 e fare di tale mandato il tema centrale – per una volta realmente europeo – della campagna elettorale.

Questo scenario è tuttavia ben lontano dall’essere acquisito : se escludiamo l’ipotesi che l’attuale Parlamento europeo si investa autonomamente di un mandato costituente e/o elabori spontaneamente un progetto di nuovo Trattato, ci sembra difficile che i capi di Stato o di governo decidano al Consiglio europeo di Dicembre di compiere immediatamente il salto verso un’Unione europea di tipo federale.  Se il Presidente Napolitano ha appena affermato che l’Unione politica europea non è più un tabù, le dichiarazioni di altri leader politici o personalità europei (a partire da Mario Draghi fino ai presidenti del Consiglio europeo e del Parlamento europeo) secondo cui “non sono necessari gli Stati Uniti d’Europa” per difendere l’Euro e rafforzare l’Unione economica e monetaria oppure “non è il momento della scelta federale”, lasciano pensare che le decisioni del Consiglio europeo di Dicembre saranno improntate (salvo nuova crisi della moneta unica) alla politica dei piccoli passi.   In tale caso, non ci sarebbe una nuova legittimazione democratica della governance europea tramite la creazione a scadenza ravvicinata di un’entità federale europea.

2)  Introduzione di nuovi meccanismi di legittimità democratica senza modifica dei Trattati.

In un suo recente articolo, Alberto Majocchi ricorda che la creazione di un Tesoro europeo, come del resto quella di un’Unione fiscale, deve essere soggetta al controllo democratico del Parlamento e agire nel quadro di un governo che sia rappresentativo della volontà popolare, conformemente al principio “No taxation without representation” (13). Quindi, la decisione di procedere alla creazione di un’Unione fiscale, con un Tesoro e una finanza federale, dovrebbe essere accompagnata da una contestuale decisione che fissi la data per l’avvio di una Federazione europea.  Se tale decisione non fosse presa, occorrerebbe comunque introdurre nuovi meccanismi di legittimazione democratica nella governance europea poiché l’Unione, come scrive Sergio Fabbrini sul “Sole 24 Ore”, sta diventando un mostro istituzionale privo della necessaria legittimazione. “Non possono essere i leader eletti in alcuni Stati membri a prendere decisioni che avranno un impatto sulla vita dei cittadini di tutti gli altri Stati” (14).  A conclusioni analoghe arrivano sia Barbara Spinelli nel suo recente articolo “Minimalisti d’Europa” (La Repubblica del 5 Settembre) che Andrea Manzella nel suo articolo “Una democrazia porosa salverà l’Europa (La Repubblica del 18 Maggio 2012). Questa analisi, ormai condivisa da numerosi commentatori, ha trovato un altro autorevole supporto nel Presidente Napolitano nel suo recentissimo discorso a Venezia : “La necessità di delegare funzioni sempre più significative… alle Istituzioni dell’Unione si è fatta cogente e ineludibile : il vero problema è quello della democraticità del processo di formazione delle decisioni dell’Unione”.

Lo stesso Andrea Manzella identifica, in un altro recente articolo (15), tre misure da adottare senza modifica dei Trattati al fine di rafforzare la legittimazione democratica della governance europea :

a) l’adozione di una procedura elettorale uniforme per le elezioni del PE che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte dei grandi partiti europei. A questa proposta – ricordata anche dal Presidente Napolitano nel suo discorso appena citato – si potrebbe aggiungere quella già ricordata secondo cui i principali partiti politici europei dovrebbero presentare loro candidati alla carica di Presidente della Commissione europea in modo da creare una “posta in palio” per la scelta dei cittadini europei.  Tuttavia queste misure, indubbiamente utili per “europeanizzare” le elezioni del PE e rafforzarne la legittimità democratica, non risolvono il problema della creazione di un governo europeo responsabile di fronte ai rappresentanti dei cittadini europei.

b)  i governi, con una dichiarazione comune pre-elettorale, potrebbero impegnarsi a nominare anche come Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione europea eletto dalla maggioranza del Parlamento europeo.  Questa “unione personale” dei due Presidenti, compatibile con i Trattati e già evocata in seno alla Convenzione europea nel 2003, avrebbe il merito di rafforzare il ramo europeo dell’Esecutivo nei confronti dello stesso Consiglio europeo.  Tuttavia, anche questa misura potrebbe avere effetti limitati sul piano della legittimità democratica se i 27/28 capi di Stato e di governo considerassero il nuovo Presidente dell’Unione come un semplice mandatario incaricato di elaborare i rapporti e di eseguire i mandati decisi nelle loro riunioni quasi mensili (del resto, già oggi Van Rompuy e Barroso elaborano insieme i rapporti sulla governance economica e sul rafforzamento dell’UEM affidati loro dai capi di Stato).

c)  I Parlamenti nazionali ed il Parlamento europeo potrebbero dichiarare di voler lavorare insieme mediante “conferenze” o “convenzioni” euronazionali sulle grandi questioni dell’Unione europea in modo da rivalutare il loro ruolo nei riguardi degli elettori e da rafforzare il controllo democratico sulle decisioni europee.  Questa misura sarebbe conforme al disposto del regolamento 1176/2011 dell’UE secondo cui il rafforzamento della governance economica dovrebbe includere una più stretta e tempestiva implicazione del PE e dei Parlamenti nazionali. Anche l’art.13 del Fiscal Compact prevede l’organizzazione di conferenze congiunte di rappresentanti del PE e dei Parlamenti nazionali al fine di discutere le politiche di bilancio. Tuttavia, anche questa misura avrebbe effetti limitati a meno che il Consiglio europeo non accettasse di sottoporre i suoi orientamenti, prima che questi ultimi diventino operativi, al vaglio ostativo di una riunione interparlamentare congiunta (secondo il modello del “Congresso europeo” proposto nel 2002 dal Presidente della Convenzione europea ma non accettato da quest’ultima). Se però tale riunione avesse un potere di “veto” nei riguardi delle decisioni del Consiglio europeo, questa procedura esigerebbe una modifica dei Trattati. Se invece i capi di governo potessero mettere in atto le loro decisioni malgrado il parere contrario della riunione interparlamentare, questa procedura non risolverebbe il nodo della legittimità democratica.

Questa breve analisi dei rapporti tra governance europea e democrazia porta alla conclusione che non sembra possibile riconciliare il funzionamento istituzionale dell’Unione con i principi della democrazia rappresentativa se non attraverso una modifica degli attuali Trattati e la costituzione di un’entità federale europea (non necessariamente sul modello presidenziale degli Stati Uniti).  A questo riguardo, non va dimenticato il monito lanciato nel 1948 da Luigi Einaudi e ricordato da Barbara Spinelli nell’articolo già citato : “Oggi che tanti uomini volenterosi si adoperano a promuovere la fondazione degli Stati Uniti d’Europa, uopo è ripeter il monito di trent’anni fa. Non facciamo opera vana e dannosa contentandoci di una semplice unione di Stati sovrani ! Meglio sarebbe non farne nulla, poiché l’unione di Stati sovrani cadrebbe presto nell’impotenza….”

PAOLO  PONZANO  (Senior Fellow all’Istituto Universitario Europeo).

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L’ ampiezza del compiacimento ottenuto dal nostro presidente del Consiglio, su scala internazionale, per l’ esito positivo della richiesta di socializzare il carico dell’ eccesso del differenziale ( spread )  fra i prezzi di collocazione dei titoli di credito degli Stati europei  dell’ eurozona, non deve sorprendere .

In effetti sarebbe quanto meno opportuna una cautela nel considerarlo un risultato concretamente importante, considerando  che non è ancora chiarito né il livello minimo di differenziale né fissato il meccanismo procedurale per il loro riconoscimento.

Ma l’ ottenuto riconoscimento del principio, malgrado la contrarietà tedesca, assume un significato che trascende la effettiva concretezza del beneficio perché conferisce un fattore di solidarietà fra stati ( dell’ eurozona) e un passo in avanti verso una concezione solidaristica, quindi federalista, dell’ Unione.

Questo motivo, giustifica pienamente il giudizio politicamente positivo di questo risultato, pur scettici sui livelli di beneficio che deriveranno ai singoli stati che, per farne richiesta, dovranno dimostrare adeguato   rigore nella gestione dei propri bilanci nazionali.

In sostanza si è introdotto un principio di fiscalità generale europea , con implicazioni che, se saggiamente valorizzate, potrebbero assecondare un processo di crescente influenza dell’ imponente corpo elettorale dei cittadini europei, accrescendone il diritto di assurgere a primaria istanza delle scelte della governance  europea  in quanto tale.

L’ ipotesi di un quadro di interferenza elettorale reciproca fra le nazioni della zona euro, è potenzialmente  foriera di possibili mutamenti di propensione dei  paesi che finora hanno conservato l’ opzione della loro sovranità monetaria.

Forse le motivazioni di Mario Monti erano presumibilmente molto più vicine alle conseguenze degli equilibri interni del parlamento italiano, riguadagnandone la subalternità : e nessuno potrebbe eccepire sulla piena legittimità dell’ occasione.

Ma nei processi storici molto complessi fanno  sempre capolino intrecci di conseguenze imprevedibili che, coscientemente o meno, producono  fenomeni  cosiddetti di eterogenesi dei fini , che un tempo si definiva il destino.

Pierluigi Sorti

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Ieri 25 ottobre una delegazione del MFE Roma composta da Paolo Acunzo (Seg.), Massimo Minnetti (Resp. comunicazione), Paolo Ponzano (Pres.), Mauro Vaccaro (CIFE), Tommaso Visone (Pres. GFE) e Francesco Gui (Pres. MFE Lazio), hanno partecipato con le bandiere federaliste al sit in “Salvare la Grecia, Salvare l’Europa” promosso al Pantheon dal gruppo dei Socialisti&Democratici del Parlamento europeo. Durante l’iniziativa, a cui hanno partecipato un centinaio di persone, si è alternata all’esecuzione di musica e la lettura di brani classici della letteratura greca, con interventi di vari parlamentari ed esponenti della comunità ellenica e dell’ambasciata greca. In particolare David Sassoli (capo delegazione PD al Parlamento europeo) ha sostenuto l’urgenza di realizzare gli Stati Uniti d’Europa al fine di creare una nuova forma di democrazia nel nostro continente e Gianni Pittella (Vice Presidente vicario del Parlamento europeo) ha ricordato la proposta di ICE del MFE e ringraziato dal palco i federalisti per l’azione svolta da lungo tempo, invitando tutti i presenti a tenere alte le bandiere per la Federazione europea. Ai margini dell’evento la delegazione si è soffermata con Pittella e Sassoli, componenti del Comitato romano per “la Federazione europea e per un piano di sviluppo sostenibile”, per studiare possibili analoghe iniziative pubbliche da tenere in occasione del Consiglio europeo di fine mese nel tentativo di creare consenso tra i cittadini intorno alla proposta di un’Europa federale. La manifestazione si è conclusa tra gli applausi dei presenti e il coro della delagazione del MFE Roma che gridava “Federazione europea su-bi-to!”.

Paolo Acunzo(Segretario MFE Roma)

Nella serata del 22 giugno si è svolta nell’ambio della Festa dell’Unità di Roma a Caracalla, un dibattito sull’Europa e sulla crisi promossa dai Giovani Democratici. Il dibattito, coordinato da Paolo ACUNZO (Vice Seg. naz. MFE) è stato introdotto da Francesco BONAZZI (Seg. GD Aurelio) che ha spiegato la necessità di affrontare con un grande pubblico temi europei in un momento talmente complicato come questo. Ha affermato di come la destra governi il 90% degli stati membri attuando politiche di austerità che stanno affondando sempre più l’Europa. Inoltre c’è un deficit democratico nella stessa Europa, poichè i cittadini fino ad ora non hanno ancora avuto la possibilità di eleggere il Presidente della Commissione Europea. L’Europa funzionerebbe bene se tutti gli stati collaborassero tra loro, non solo dal punto di vista della moneta, ma anche dal punto di vista della politica e dell’economia (che in sintesi significa Stati Uniti d’Europa) e se cominciassero a capire che salvandola Grecia aiutano anche se stessi dati i rapporti economici che tutti gli stati hanno conla Grecia stessa. Ha terminato il suo intervento augurandosi altre vittorie in Europa da parte dei progressisti (dopo quella di Hollande) nella speranza che potranno essere portatori di modifica e di rinnovamento delle istituzioni europee.

Lucio LEVI (Pres. naz. MFE) ha iniziato il suo intervento compiacendosi di parlare di fronte ai tanti giovani che erano presenti al dibattito. Ha fatto una breve analisi del vertice Europeo svoltosi a Roma lo stesso giorno tra Merkel, Monti, Hollande e Rajoi, vertice nel quale sono state affrontate questioni che i Federalisti Europei affrontano da tempo come la crescita e lo sviluppo. Nel suo intervento ha fatto emergere con chiarezza la necessità degli Stati uniti d’Europa e di nuove istituzioni internazionali per uscire dalla crisi, come ad esempio un ministro delle finanze unico per l’Europa, che sappia dettare politiche per tutti gli Stati. In tal senso i federalisti hanno già proposto una Iniziativa dei Cittadini Europei per “un Piano di sviluppo sostenibile” quale strategia per uscire dalla crisi. Ciò sarà possibile solo raddoppiando il bilancio Europeo passando dall’ 1 al 2% del Pil, con la tassa sulle transazioni finanziarie (per far pagare la crisi a chi la crisi l’ha creata), la carbon tax (tassa sull’emissione del monossido di carbonio) eurobond(condivisione di un debito europeo e la possibilità di titoli di stato europei) e euro-projectbond(per finanziare la costruzione di ponti, strade e simili), unitamente all’istituzione di un reale governo europeo dell’economia.

Sandro GOZI (Deputato PD) ha affermato di come si debba cambiare il modo di fare politica nel nostro paese poichè fino ad ora è rimasta nei confini nazionali. Quindi l’obiettivo che si deve raggiungere è l’europeizzazione della politica italiana, dei partiti e del PD in particolar modo. Europeizzazione significa trasmettere il messaggio ai cittadini italiani che parlare d’Europa non deve essere più considerato politica estera ma politica interna. L’Europa siamo noi e la viviamo tutti i giorni e non è la causa dei nostri mali come alcuni pensano. Non possiamo uscire dall’Europa e dall’euro come vorrebbero Grillo e Berlusconi, poiché avrebbe degli effetti devastanti sul nostro paese. Il PD deve fare proprio la battaglia per gli Stati Uniti d’Europa e per la costruzione di Partiti politici Europei, cercando e alleandosi con chi vuole questi obiettivi per raggiungerli più facilmente.La Franciastoricamente si è sempre opposta alla Federazione Europea, basti pensare che nel 2005 la maggior parte dei francesi ha votato contro la possibilità di una costituzione Europea, adesso con Hollande le cose potrebbero cambiare anche se non ha mai fatto esplicito riferimento agli Stati Uniti d’Europa. Il 2014 (anno di elezione del parlamento europeo) è un ulteriore tappa di avvicinamento verso questa meta sperando di poter arrivare ad eleggere il Presidente della Commissione Europea e sarebbe poi meraviglioso se nel 2018 (a cent’anni dalla fine del I° conflitto mondiale) si potesse proporre ai cittadini europei un trattato che istituissero gli Stati Uniti d’Europa.

Roberto DI GIOVAN PAOLO (Senatore PD) ha evidenziato come la crisi oltre ad avere effetti negativi , ha portato la gente comune a parlare di Europa e a rendersi conto dell’esistenza della stessa e ha sottolineato come nel PD sia molto sentita la necessità di una nuova Europa più solidale e democratica . Ha ribadito di come la crisi sia sistemica, cioè coinvolga tutti gli stati e dove bastano anche le difficoltà di un solo stato per far saltare tutto (ce ne stiamo accorgendo conla Grecia). Ha poi specificato come non tutte le crisi siano della stessa natura facendo due esempi come quella dellala Greciasia differente da quella dell’Irlanda. La crisi greca è si una crisi economica, ma anche una crisi politica di uno stato più arretrato, mentre quella dell’Irlanda, uno stato moderno, è più una crisi di mercato. Il Senatore ha precisato che si uscirà dalla crisi prima o poi, ma se non cambiano le regole del mercato ci saranno ancora speculatori e scommettitori per il default di vari paesi.

Dopo aver dato la parola ad alcuni interventi dal pubblico, Paolo ACUNZO ha fatto notare come sia sempre più valida la classica divisione tra progressisti e conservatori menzionata nel Manifesto di Ventotene e come sia urgente che tutte quelle forze che si professano progressiste si coalizzino al più presto nella battaglia per il varo di una Costituzione Federale europea.

Infine Lucio LEVI nelle sue conclusioni si è mostrato molto soddisfatto del dibattito, ma ha anche notato di come ci sia ancora molta strada da fare se si vogliono raggiungere i tanto agognati Stati Uniti d’Europa, e questa strada dovrà essere lastricata da obiettivi concreti che parlino direttamente ai cittadini come ad esempio il varo di un piano europeo di sviluppo sostenibile in grado di far uscire l’Europa dall’attuale crisi prima che sia troppo tardi.

Massimo Minnetti

Resp. Uff. Comunicazione

MFE Roma

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